Giorno dopo giorno mia madre perde qualcosa di se. È un maledetto morbo chiamato Alzheimer che la sta distruggendo. Quando il neurologo chiamò me e mia sorella e, con fare professionale ma freddo, ci comunicò quella terribile sentenza, mi sentii morire dentro. Difficile dire cosa provai quel giorno, il dolore forte, la paura per il futuro, ma soprattutto la pietà; pietà infinita per una donna con la quale non ero mai andata molto d’accordo alla quale, però, riconosco tutti i pregi, soprattutto quello di essere stata un’instancabile lavoratrice. Mia madre era una donna attiva, solare, intraprendente, con tanta voglia di vivere e molto altruista. La sua casa era sempre aperta a chi ne aveva bisogno o a chi, semplicemente, desiderava entrarci. Accoglieva tutti con quel calore tipico delle persone del sud, mettendo immediatamente chiunque a proprio agio .
Dal momento della diagnosi sono trascorsi, inesorabili, i giorni, i mesi, gli anni e ora, la testa di mia madre non vuol più saperne di ragionare. È come un interruttore impazzito, che non risponde più ai comandi e man mano spegne la luce nelle stanze del cervello. È difficile convivere con questa malattia. Non è facile raccogliere le forze e andare avanti. Non è facile neppure orientarsi, capire cosa fare, a quali strutture rivolgersi.
Osservo mia madre mentre fissa un punto non ben definito e mi chiedo se abbia perso completamente il suo passato e il suo presente o se non stia disperamente tentando di recuperarne una piccola parte. All’improvviso mia madre mi guarda e mi chiama per nome. Gioisco di ciò perchè, penso, forse ha riafferrato uno scampolo del presente. Le rispondo immediatamente sperando di poter approfittare di quel momento di apparente lucidità. Inizio a parlare con lei e, dalle sue stentate, confuse parole, capisco che sta ostinatamente cercando di riaffereare, e probabilmente sarà solo per qualche attimo, non un frammento del presente bensì un piccolo ritaglio del passato. Ora mia madre si rivolge a me chiamandomi mamma. Mi dice che mi vuol bene. Questo mi fa pensare che gli affetti, seppur confusi, sconnessi, continuano a far parte della sua esistenza. Chissà se quel „ti voglio bene“ era rivolto a me e non a sua madre? Vorrei poter guardare i suoi occhi ancora vivi, vorrei che ritornasse da questo suo lungo, sconosciuto, viaggio. Devo rassegnarmi, so bene che non è possibile! L’alzheimer me la sta portando via. Mia madre si sta spegnendo, come una candela, giorno dopo giorno e niente sarà mai più come prima!
Maria Bernasconi